La questione relativa ai concetti di consonanza e dissonanza è da sempre risultata spinosa e di difficile definizione. Questo non soltanto perché ogni epoca storica ha affrontato differentemente tale problematica (ad esempio un intervallo come la quarta giusta, considerato dissonante ancora nel rinascimento, non lo sarà più nel XVII secolo), ma anche perché diverse condizioni culturali e geografiche hanno reagito in maniera del tutto autonoma al medesimo stimolo di ordine teorico ma anche e soprattutto empirico. Nonostante questa varietà e molteplicità di punti di vista esistono, in relazione a tale controversa querelle, delle costanti che potremmo considerare “universali”.
In misura generica, definiamo intanto consonante tutto ciò che suona “gradevole” all’orecchio, e viceversa dissonante quel che viene percepito come una sorta di “disturbo” o “tensione” auditiva. È del tutto evidente come questa definizione sia vaga ed approssimativa, sia perché presuppone una valutazione soggettiva, sia perché la tensione non sottostà necessariamente ad un giudizio di valore, e il desiderio di “risoluzione” di tale tensione è piuttosto una necessità psicologica che meramente teorica.
Da un punto di vista storico e culturale, infatti, nella tradizione musicale occidentale la dissonanza (prima “praticata” e poi “teorizzata”) nasce tra XV e XVI secolo, come naturale evoluzione del pensiero polifonico, cioè come concetto strettamente legato ad una logica “a più voci”, in quanto si tratta della percezione di una verticalità armonica, che presuppone la contemporaneità di almeno due suoni. Si avvertì quindi la necessità di inserire, a fine frase, delle Clausole Cadenziali che, in stretta analogia col linguaggio parlato, fungessero da “punteggiatura” (riproponendo, in una sintassi del tutto diversa, i vari punti esclamativi, interrogativi, le virgole, le parentesi e le virgolette su cui è basata la scrittura). Tali clausule cadenzali erano spesso caratterizzate da una dissonanza che preparasse, con un senso di attesa gravido di aspettative, la risoluzione su un’armonia consonante. Si ascolti ad esempio Super flumina Babilonia di G. P. da Palestrina. Col tempo questa prassi si è consolidata a tal punto da creare un sistema di tensioni-distensioni armoniche, di aspettative disattese e o prevedibilmente risolte, instaurando un sottile gioco con i nervi dell’ascoltatore, ed è un tipo di strategia che potremmo tranquillamente estendere anche ad altri generi artistici come la prosa o la cinematografia. Immaginiamo, ad esempio, in un thriller mozzafiato, la vittima predestinata che si aggira spaurita nel suo appartamento, inconsapevole del proprio destino, ma quasi intuendone il suo ineluttabile compiersi. Bussano alla porta, la tensione sale, la musica magari aiuta a creare l’atmosfera giusta, la vittima, ignara, apre… ed ecco apparire l’innocuo vicino, che ha finito lo zucchero. Una situazione del genere, tradotta in musica, deve generare la stessa suspense, ed il compositore si serve della cadenza e di un equilibrio oculato di dissonanze e consonanze, per mettere in atto la propria “regia” degli eventi.
Tutto questo, naturalmente, funziona alla perfezione all’interno di una logica fortemente ancorata alla tonalità, cioè un pensiero che si è affermato in occidente tra il XVI e il XVII secolo e che imperversa, seppur con qualche incrinatura, ancora ai nostri giorni. Come si è detto, però, altri tipi di civiltà (pensiamo soltanto alla musica africana o a quella araba o a quella orientale) si muovono in un ambito semantico affatto diverso, e molto lontano dalle dinamiche linguistiche insite nella logica tonale. Nonostante ciò, esistono delle leggi “universali”, che potremmo estendere ad ogni epoca e cultura in quanto legate alla fisiologia del nostro apparato auditivo, nonché alle proprietà fisiche di ogni corpo vibrante. Non è un caso, infatti, che praticamente alla base di ogni civiltà vi sia l’intervallo di quinta giusta, cioè la distanza che intercorre tra la seconda e la terza parziale della serie degli armonici; e non è un caso che la sintassi tonale nasca e si sviluppi a partire dalla triade maggiore, formata dalla sovrapposizione delle prime 5-6 parziali armoniche.
Le scoperte riguardo la scienza acustica fatte da Galileo sono incredibili considerando che le conoscenze in quell’epoca erano ancora quelle dei pitagorici.
Galileo scopre che non è solo la lunghezza di una corda a determinarne il suono, ma anche la tensione e lo spessore ne sono coinvolte; inoltre si accorge che è la frequenza di oscillazione e la velocità con cui essa si propaga a determinarne l’altezza.
Questo spiega perchè negli strumenti a fiato a d esempio, più il diametro del tubo è piccolo e più l’aria circola velocemente producendo un suono acuto. Viceversa più la sezione sarà grande e più basso sarà il suono emesso; vedi basso tuba.
Ecco cosa scrive nel libro: “Discorsi intorno a due nuove scienze”
“… Tre sono le maniere con le quali noi possiamo inacutire il tuono (tono) a una corda: l’una è lo scorciarla; l’altra, il tenderla più, o vogliam dir tirarla; il terzo è l’assottigliarla… “.(G. Galilei)
Nel seguente passaggio spiega di come mentre stava raschiando con uno scalpello una piastra di bronzo per togliere delle imperfezioni ascolta un sibilo più o meno acuto che lasciava dei solchi più grandi quando il suono era acuto e più piccoli per i bassi.
Misurando questi solchi riesce a contare le oscillazioni di un onda. Queste sono le sue parole:
…L’invenzione fu del caso, e mia fu solamente l’osservazione e ‘l far di essa capitale e stima come di riprova di nobil contemplazione, ancor che fattura in se stessa assai vile. Raschiando con uno scarpello di ferro tagliente una piastra d’ottone per levarle alcune macchie, nel muovervi sopra lo scarpello con velocità, sentii una volta e due, tra molte strisciate, fischiare e uscirne un sibilo molto gagliardo e chiaro; e guardando sopra la piastra, veddi un lungo ordine di virgolette sottili, tra di loro parallele e per egualissimi intervalli l’una dall’altra distanti. Tornando a raschiar di nuovo più e più volte, m’accorsi che solamente nelle raschiate che fischiavano lasciava lo scarpello le ‘ntaccature sopra la piastra; ma quando la strisciata passava senza sibilo, non restava pur minima ombra di tali virgolette. Replicando poi altre volte lo scherzo, strisciando ora con maggiore ed ora con minor velocità, il sibilo riusciva di tuono or più acuto ed or più grave; ed osservai, i segni fatti nel suono più acuto esser più spessi, e quelli del più grave più radi, e tal volta ancora, secondo che la strisciata medesima era fatta verso ‘l fine con maggior velocità che nel principio, si sentiva il suono andarsi inacutendo, e le virgolette si vedeva esser andate inspessendosi, ma sempre con estrema lindura e con assoluta equidistanza segnate; ed oltre a ciò, nelle strisciate sibilanti sentivo tremarmi il ferro in pugno, e per la mano scorrermi certo rigore: ed in somma si vede e sente fare al ferro quello per appunto che facciamo noi nel parlar sotto voce e nell’intonar poi il suono gagliardo, che, mandando fuora il fiato senza formare il suono, non sentiamo nella gola e nella bocca farsi movimento alcuno, rispetto però ed in comparazione del tremor grande che sentiamo farsi nella laringe ed in tutte le fauci nel mandar fuora la voce, e massime in tuono grave e gagliardo. Ho anco tal volta tra le corde del cimbalo notatone due unisone alli due sibili fatti strisciando al modo detto, e de i più differenti di tuono, de i quali due precisamente distavano per una quinta perfetta; e misurando poi gl’intervalli delle virgolette dell’una e dell’altra strisciata, si vedeva, la distanza che conteneva quarantacinque spazii dell’una, contenere trenta dell’altra, quale veramente è la forma che si attribuisce alla diapente…(G.Galilei)
L’ingegno di Galileo non ha limiti e con la similitudine dei pendoli sperimenta la consonanza musicale; vediamo come:
Avendo stabilito che il rapporto tra le frequenze di suoni è completamente determinato dal rapporto delle lunghezze delle parti vibranti che lo generano Galileo ricerca le ragioni della consonanza nella semplicità dei rapporti tra le frequenze dei suoni emessi. In un famosissimo passo dei Discorsi intorno a due nuove scienze (1638), Galileo attribuisce l’origine della consonanza al fatto che quando l’orecchio viene investito da due suoni di frequenze commensurabili (secondo rapporti piccoli), esso percepisce una regolarità del fenomeno che si ripete secondo una periodo di breve durata. In tale passo Galileo rafforza l’argomento con una similitudine meccanica: due pendoli che fossero messi in oscillazione in sincronia e che completassero l’oscillazione in 2 e 3 secondi rispettivamente, in breve (dopo sei secondi, minimo comune multiplo tra due e tre) recupererebbero la sincronia. Se il rapporto delle frequenze non è commensurabile (inconcepibile per i primi Pitagorici, ma non per gli ultimi!) o comunque il rapporto è espresso da frazioni contenenti numeri elevati (es: 9/8) il recupero della sincronia avviene solo dopo nove pulsazioni della nota più frequente, rendendo l’orecchio incapace di cogliere la regolarità (e quindi la consonanza) del fenomeno complessivo.
Il fisico e medico tedesco Hermann von Helmholtz circa duecento anni dopo Galileo elabora una teoria della percezione dei suoni che completa ed in parte corregge le osservazioni dello scienziato italiano.
Nella regione dei suoni “gravi” i suoni, a parità di rapporto di frequenza, sono molto ravvicinati in frequenza. Von Helmholtz ritiene che suoni molto ravvicinati in frequenza inducano dissonanza perché fanno intervenire fibre nervose molto vicine, generando confusione a livello di elaborazione cerebrale. È questo il fenomeno dei battimenti descritto dal punto di vista fisiologico relativa alla banda critica
Von Helmoltz attribuisce l’insorgere della dissonanza ai battimenti tra le parziali di ordine superiore se queste cadono all’interno della banda critica. Poiché la larghezza della banda critica va aumentando all’aumentare della frequenza, suoni che hanno un gran contenuto di armoniche di ordine elevato possono rivelarsi autodissonanti.
L’intuizione Galileiana che attribuisce la consonanza alla regolarità delle vibrazioni del timpano non è poi, in fondo, molto lontana dal vero, anche nelle spiegazioni più recenti. Suoni, i cui rapporti di frequenza sono espressi da numeri semplici, hanno frequenti coincidenze nelle parziali di ordine superiore (ad esempio la terza armonica del DO è identica alla seconda armonica del SOL, che sta una quinta sopra) ed attivano i medesimi recettori. È come se nella “mappa” delle fibre nervose attivate dal DO fosse contenuta, in parte, anche la “mappa” delle fibre attivate dal SOL. Una conferma di tale fatto si ha nel giudizio di consonanza che attribuiamo a due suoni (ad esempio una quinta) emessi da uno strumento povero di armonici superiori (es. il flauto) e uno strumento ricco di armonici superiori (es. il pianoforte): nel secondo caso il suono ci appare più armonioso come se la “sincronia” galileiana fosse rafforzata dalla coincidenza delle armoniche superiori.
Quindi abbiamo analizzato due tipi di consonanze e dissonanze : la prima di natura esclusivamente estetica e soggettiva, fortemente vincolata dal contesto storico-culturale, ed una seconda di carattere fisiologico e di natura prettamente fisica vincolata dal nostro sistema percettivo.
Non si deve però credere che la teoria di von Helmholtz offra un criterio oggettivo per stabilire una gerarchia di suoni consonanti. Oggi molti sono gli sforzi di fisici, musicisti ed ingegneri acustici di trovare delle leggi che stabiliscano in maniera inequivocabile tale gerarchia; il problema di fondo, però, che rende vane o quanto meno opinabili molte di queste ricerche, è che il tasso di maggiore o minore consonanza dipende da tanti e tali parametri che sfuggono ad un controllo scientifico (il contesto musicale al quale si fa riferimento, il registro nel quale gli strumenti musicali agiscono, la relazione tra strumenti dal timbro differente, etc.) da rendere pressoché impossibile (forse fortunatamente!) una qualsivoglia determinazione univoca.